POESIE DALL’ ISOLA IMMAGINARIA.
Alessandra Libertini nelle librerie con Atlantide
Immaginiamo che esista un posto, da qualche parte dell’universo, dove la poesia sgorga incessante come acqua da una cascata, con i suoi tonfi sordi, i suoi frastuoni, le sue vibrazioni, con indomabile potenza e fragore, per poi piombare in lunghi silenzi inanimati, in spazi grevi d’apnea a stento sussurrati.
Immaginiamo che quella poesia fuoriesca dalle vene dei polsi, urli la sua voce a tutti i cieli immaginabili, rompa le catene e i muri della quotidiana indifferenza, delle consuetudini, straripando con la forza di un tuono che si appressa al lampo, o col sorriso giallo delle ginestre in boccio.
E’ da quest’isola leggendaria, lontana, inaccessibile, sperduta, dimenticata, stralunata – che tutti chiamano Atlantide – che la scrittrice e poetessa Alessandra Libertini ha visto fiorire (non ci sono altri sinonimi possibili) la sua ultima raccolta di versi, un piccolo capolavoro di sudata grazia e d’intimità poetica, in cui l’autrice – per usare le parole di Francesco Cosenza – si tuffa vestita nella vita tutta.
Il volume “Atlantide – Atlantis” – Hermaion Edizioni – che ospita, oltre alle parole illuminate di Cosenza, l’acuto contributo critico di Domenico Brancucci, è un lungo ed impervio viaggio interiore tra i cunicoli e le ombre della precarietà, tra le oscure cecità e i graffi sulla pelle – troppo spesso gratuiti – di un mondo che non sa guardare l’alba e, spesso, non sa attenderla.
Alessandra Libertini indossa la sua armatura di carne ed ossa e soffia forte il suo cuore dall’isola leggendaria, dove prova a custodire il buono, le carezze degli affetti perduti, a cucire gli strappi e le ferite della vita che non fa sconti, a combattere gridando a squarciagola la gioia e il dolore di essere al mondo, di resistere con le sue ginocchia, dal fondo dei suoi occhi.
E restituisce al vento versi salvifici, tersi, immortali, che talvolta rimandano, per intensità, agli spasmi visionari di Octavio Paz, o a certe tessiture indecifrabili, e dolcemente inesorabili, di Fernando Pessoa: “E quando sei tornata nel mondo / col tuo dente storto nel sorriso / e gli occhi a mezzaluna / era inverno, / ma hai portato una stagione nuova./ Chi l’aveva mai vista / l’estate nuda / col vento di gennaio / quando fa più caldo ? (Ritorno al mondo); “In Atlantide c’era uno specchio / Guardavo lo specchio e c’eravamo noi. / Ti chiedevo come stavi. / Non me lo chiedevi mai. / Ti chiedevo se mangiavi / Non me lo chiedevi mai. / Ti chiedevo se dormivi / Non me lo chiedevi mai. / Ti chiedevo se uscivi. / Non me lo chiedevi mai. / Io non stavo. / Non mangiavo. / Non dormivo. / Non uscivo. / In Atlantide c’era uno specchio / Vedevo due persone, ma ero solo io. ” (Lo specchio).
Il verso della Libertini si fa sublime quanto più affonda nell’io, quando diviene sutura, cura della radice interiore, dell’intima essenza di un battito o di un sospiro: “Nelle mani ho una mano / che profuma della mia vita intera / piena di macchie, spessa, le vene a vista, / non ha la fede, ma la sua fede sono io”; oppure quando il silenzio di Atlantide si fa boato: “Sono quel fango che viene / dopo il temporale estivo / e sono l’ultimo fiore / che cresce spontaneo / dal deserto in miniatura / di quell’isola leggendaria. / Chissà se esisto / oltre questa poesia“.
Esistere oltre la poesia; esistere prima, dopo, o nonostante Atlantide. Non ci sono risposte alle domande eterne del poeta: non c’è teoria, né filosofia o psicologia che possano soccorrere.
Ma Atlantide, che magari non esiste, ci dice che esiste la poesia e con essa, forse, la salvezza. Alessandra Libertini ne è sofferta testimone: “Isola protetta / quella in cui c’è odore di neonato / e orchidee sul comodino, / gite la domenica, / vola vola e capriole, / sabbia bagnata che sa / di baffi neri / sulle guance / che fanno ridere. / Le onde che ogni notte / vegliavano la mia insonnia, / le eco dei consigli / che salvano il destino. / Quel giorno siamo morti in due. / Ma tu non puoi risorgere. / Ogni volta che nuoto, / è una carezza sui capelli rossi / ogni bracciata nel maremoto. / L’unica, quando ero bambina.”.
A questa bellezza non servono commenti. Non restano parole sospese nell’aria. Dall’aurora di Atlantide, dalla notte di Atlantide, è davvero tutto.
Francesco Potenza













































































































































